Famiglie omogenitoriali, discriminazione sociale e pregiudizi

Le famiglie omogenitoriali devono affrontare un compito evolutivo supplementare rispetto alle altre famiglie e confrontarsi con le credenze socialmente condivise sulla legittimità o meno delle loro forme familiari. Il legame allo schema di famiglia tradizionale ancorato in ognuno di noi, crea di fatto una resistenza sociale, culturale, politico-legislativa, che riproduce stereotipi omofobici. Questi aspetti si configurano, sia per i genitori omosessuali sia per i bambini e le bambine che crescono in nuclei omogenitoriali, come potenti stressors, che a lungo andare, potrebbero avere risvolti disfunzionali non tanto legati alla specifica configurazione familiare o genitoriale, quanto più che altro all’interferenza sul sistema familiare/genitoriale dei fattori di rischio introdotti dalla continua reiterazione di processi di discriminazione. Steele e Aronson [1995] hanno elaborato un modello teorico, lo Stereotype Threat (minaccia legata agli stereotipi): le persone appartenenti ad uno specifico gruppo sociale (in questo  caso  le coppie omosessuali e i figli di omosessuali), contraddistinto dall’attribuzione di tratti afferenti ad uno stereotipo negativo, sono messi nelle condizioni di vivere un forte stato d’ansia, derivante dalla paura di confermare il pregiudizio che vige nei loro confronti.

Tale stato d’ansia ha delle notevoli ricadute sulla strutturazione di comportamenti che potrebbero andare proprio nella direzione di confermare il pregiudizio esistente (profezie che si autoavverano). Seguendo questa logica, possiamo considerare che per i bambini che vivono in nuclei omogenitoriali, più che le dinamiche familiari, sono la stigmatizzazione, il pregiudizio e la discriminazione ad esercitare un’eventuale influenza negativa, come effetto diretto dell’eterosessismo più accettato a livello sociale e culturale (Taurino, 2012).

Forme di discriminazione: «Nella mia esperienza personale, racconta Ilaria Trivellato, mamma arcobaleno di Casalecchio in Emilia, non ho mai incontrato persone maldisposte. Ma c’è molta impreparazione, incapacità di affrontare la diversità familiare. Te la dico così: i nostri bambini entrano a scuola che hanno due mamme, escono che non hanno un papà. Entrano con una loro specificità e peculiarità, escono che hanno qualcosa di meno rispetto agli altri. Come è possibile? Il fatto è che qualsiasi nucleo familiare che ci si presenta davanti lo paragoniamo a quello che consideriamo la norma padre/madre. E quindi sarà sempre mancante di qualcosa. Non diverso, peggiore.  Eppure la famiglia composta da madre e padre è una costruzione sociale come altre, soggetta a cambiamenti».

E così capita che i genitori arcobaleno debbano avere la risposta pronta, per ricordare a tutti che le famiglie sono di tanti tipi. Ecco Francesca, l’altra mamma di M. e N.: «Mi ricordo un giorno che ho portato M. a scuola e una mamma, che non mi ha visto, indica mio figlio e dice a un’altra mamma che le era vicino: “È quello lì, robe dell’altro mondo”. Mi sono avvicinata e le ho detto: “Di questo mondo signora, di questo mondo. Noi siamo qui e siamo di questo mondo”. Lei è subito scappata via, la sua vicina mi ha guardato e mi ha detto: “Andiamo a prenderci un caffè?”. Le ho risposto sì, grazie. E siamo diventate amiche» [Tebano, 2015].

Un altro stereotipo riguarda l’idea che l’orientamento sessuale dei genitori influenzi quello dei figli in quanto le coppie omogenitoriali non possono consentire nei figli l’identificazione di genere diverso. In realtà nella costruzione della propria identità, i bambini non sono influenzati solo dai propri genitori ma da una molteplicità di modelli e di figure. Tanto è vero che lesbiche e gay provengono da famiglie qualsiasi e i ricercatori non hanno mai individuato tratti specifici nei loro genitori.

Diversi studiosi hanno evidenziato come i figli di coppie omosessuali, rispetto a quelli di coppie eterosessuali, si trovano di fronte a una maggiore stigmatizzazione sociale, ad atti di bullismo e a discriminazioni [Bottino, Danna, 2005; Ruspini, Luciani, 2010]. Questo potrebbe naturalmente far presupporre che le loro relazioni sociali siano difficili e, in alcuni casi, dolorose. Forse, la cosa migliore che potremmo fare per questi bambini, collettivamente, è quello che suggerisce Cafasso [2015] nel suo libro: smettere di vederli per quello che non sono («figli mancanti») e iniziare a guardarli come un pezzo di questo mondo che cambia.

Gisella Pricoco
Mediatrice Familiare